
Noi siamo infinito e assoluto e tutti sentiamo il richiamo di entrambi, perché la natura dell’uomo è divina. “Streben nach den Umbedingten”, ovvero “tendere verso l’assoluto”, era il celebre motto degli scrittori e poeti del romanticismo tedesco, perché è proprio in questo sforzo prometeico della tensione verso l’assoluto che risiede la vera natura dell’uomo. Negli ultimi secoli però questo legame con l’infinito e l’assoluto che è connaturato con la specie umana è stato spezzato o comunque molto indebolito per compiere un processo di reificazione dell’uomo: ridurlo alla sua biologia, alla sua mera corporeità e alle “funzioni” che è chiamato ad espletare, cioè le otto canoniche ore di lavoro giornaliero. Sicuramente non è una caso (anche perché il caso non esiste) che l’orario di lavoro (labor, non opus) sia stato fissato in otto ore: in questo modo le persone pensano solo a svolgere i loro compiti, non vivono il tempo che gli è stato concesso di vivere e sono ridotte ad automi. Si tratta ovviamente di un sistema di controllo voluto da molto in alto, che serve soprattutto a ingabbiare la loro mente, a non farle pensare a nient’altro che non sia il loro lavoro, affinché non si pongano le domande fondamentali della vita che le porterebbero a capire che l’uomo non ha limiti, a parte quelli che si autoimpone e quelli che crede di avere perché è stato convinto da altri di averli. Se le persone capissero che l’uomo non ha limiti ognuno riacquisterebbe immediatamente la libertà di scegliere il suo destino e trasformerebbe la sua vita in “opus”, in un’opera d’arte, e la vivrebbe questa opera d’arte. Smetterebbe di essere lo spettatore del film che è la sua vita, e tornerebbe ad esserne il protagonista. Ma questo salto epocale è possibile solo attraverso lo studio dell’Economia Umanistica, senza la quale l’uomo continuerà a reinterpretare senza fine il ruolo del moderno Sisifo.
Suggerimento di lettura: I dolori del giovane Werther – Johann Wolfgang von Göthe
David Sebastiani
